Giuseppe Marletta

Il dono del nome

Nel corso della prima esperienza al campo di volontariato del CAEF ho avuto il privilegio di conoscere uno dei bambini più speciali al mondo: J. Questo piccolo bimbo purtroppo non ha la fortuna di dimostrare la sua vera età.

Infatti, nonostante abbia già otto anni, appare talmente piccolo e minuto da dimostrarne quattro. Ciò dipende molto probabilmente delle vicende del suo triste passato, composto da malnutrizione e molti altri maltrattamenti.

Non dimenticherò mai il nostro primo momento di relazione. Vedendo il suo viso intimidito e un po’ spaventato per l’arrivo dei volontari italiani, essendo entrato a far parte della famiglia del CAEF soltanto da pochissimi mesi, pensai di regalargli un semplicissimo origami di cartoncino, nel quale avrebbe potuto infilare le dita immaginando di possedere un fiore oppure un piccolo uccellino. Da quel momento in poi la sua paura e la sua incertezza mutarono in gioia e spensieratezza; il suo splendido sorriso mise in risalto che stava cominciando a perdere i denti da latte; i suoi occhi mostrarono una preziosissima e fragile allegria che aveva la forza di trasmettere, anche ad una persona seria e composta come me, un indescrivibile amore paterno.

Di giorno in giorno il nostro rapporto cresceva esponenzialmente. Benché io non sappia parlare molto bene lo spagnolo, J. mi introdusse alla conoscenza di un altro tipo di linguaggio; un linguaggio che probabilmente prima di entrare al CAEF a lui era mancato e di cui in quel momento sentiva di avere bisogno. Un linguaggio fatto di attenzioni, gioco, disegni, baci e solletico.

Non dimenticherò mai le mattinate passate a disegnare, attraverso una sorta di rito che mi piace pensare fosse solo nostro. Dopo aver scelto l’oggetto del disegno dai numerosi libri di fiabe per bambini messi a disposizione, mi chiedeva di ricopiarlo e poi di aiutarlo a trovare le matite adatte per colorarlo. Solo dopo aver coperto con meticolosa attenzione e infantile disattenzione ogni spazio bianco, lo invitavo a scrivere il suo nome sul disegno, per sottolinearne l’importanza.

La mattina, appena svegliato, io cercavo il suo sguardo e lui inseguiva il mio. Un contatto nato da un semplice sorriso, si era trasformato, senza nemmeno accorgersene, in una ricerca bramosa dell’altro. Fin da subito ognuno cercava di dimostrare a suo modo il proprio affetto. Mentre io utilizzavo ogni momento libero per stare particolarmente con lui, farlo ridere e giocare, J. incominciò a farmi ogni giorno delle piccole letterine di carta con all’interno pezzetti di disegni ritagliati, raffiguranti cuori, stelle o animali.

Verso la fine del mese notai con estremo piacere che le letterine contenevano anche il suo nome. Era come se avesse voluto donare tutto se stesso, senza sapere, tuttavia, che lo aveva già fatto. Era come se avesse voluto farsi portare in una minuscola valigia per ritornare con me in Italia, senza sapere che ormai era dentro al mio cuore. L’ultimo giorno mi stupii del fatto che voleva che scrivessi su un pezzo di carta il mio nome. Solo dopo mi accorsi dell’importanza di quel gesto. L’ultima letterina regalo conteneva, invero, in due fogli distinti ma avvolti da una medesima striscia di carta, il mio nome scritto da me e il mio nome scritto da lui.

Aveva imparato a scrivere il mio nome ricopiando la mia calligrafia, dimostrandomi di non voler dimenticare i bei momenti trascorsi assieme. Eppure il dono non si limitava a questo.

J. infatti mi ha dimostrato molto di più. Mi ha donato il mio stesso nome. Mi ha fatto capire che la mia vera umanità è scritta con le mani di un bambino.

 


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