Tiziana Casti

Il tassello di un puzzle

Si parte di nuovo; è il quarto anno ma questa volta c’è una novità: dodici giorni di viaggio prima di quello del gruppo con altri tre compagni per conoscere e scoprire più a fondo il Perù.

Son stati 12 giorni diversi da ciò a cui ero abituata ma fondamentali per imparare ancora una volta che questo paese non ha una sola anima ma è composto da molte sfaccettature che lo caratterizzano ognuna a modo suo.

E’ così che scopro un territorio fatto di altopiani, deserti, montagne, laghi meravigliosi ma che hanno in comune col “mio” Perù i colori: così intensi e così sbiaditi allo stesso tempo che incorniciano il contesto in cui ti trovi. Dodici giorni alla scoperta di sé stessi per prepararsi ad un mese in quella casa che ormai conosci ma da cui riceverai nuove scoperte e nuovi doni.

Incontriamo il gruppo a Lima, ritrovi volti conosciuti e non, qualcuno ti guarda con curiosità perché ha tanto sentito parlare di te dagli altri o dalle mail di preparazione, curiosità che io stessa provo.

La prima novità è la presenza di Judith e Osver a Lima; capisco da subito che il viaggio sarà diverso e che io stessa vivrò la mia casa in modo diverso. Non c’è stato il tempo di pensarlo che subito mi ritrovo in una veste che faccio fatica a portare: sono una delle responsabili del campo e come tale non posso limitarmi a lavorare coi bambini ma devo anche seguire il gruppo, rappresentare il Caef e la Onlus davanti alle istituzioni e andare ad ogni riunione che viene fissata.

Quanta fatica! Anche il mio corpo ha manifestato, attraverso l’influenza, che quest’anno sarebbe stato tutto un po’ in salita.

E’ stato un percorso duro, dove spesso ho dovuto rallentare per capire che i sassi che mi facevano perdere l’equilibrio erano come tanti piccoli avvertimenti, messi lì per dirmi che era ora di cambiare, di crescere e che c’era bisogno di un nuovo investimento in quella realtà che non poteva essere fatto più solo di sorrisi, abbracci, risate e condivisione di speranza; doveva esserci un salto. Negli anni passati erano state poste le basi per questo cambiamento, ora era il momento di cominciare a costruire. La costruzione più grande è stata quella dell’insieme di relazioni in cui abbiamo cercato di inserire il Caef; forse per indole e non potendo parlarvi di tutte, quella che mi è rimasta  più impressa è l’incontro con i gesuiti e i ragazzi della loro parrocchia. Una domenica siamo stati ospiti da loro; abbiamo preparato la pizza, la pasta e cantato con loro dopo cena. Un altro giorno, invece, son stati nostri ospiti e abbiamo celebrato la messa, festeggiato il primo compleanno di uno dei bambini e i “maschietti” hanno fatto una partita a pallone. Questo tessere relazioni ha portato i ragazzi della parrocchia ad impegnarsi con il Caef per iniziare un percorso di catechismo con i nostri piccoli. Per me, che negli anni ho avuto la gioia di essere madrina di battesimo di due splendide bambine, è stata una conquista perché forse non ci sarà più bisogno di aspettare gli italiani per ricevere un sacramento; per me è un primo passo verso l’indipendenza.

Un altro mattoncino posto è il senso di responsabilità cresciuto dentro di me giorno dopo giorno, quella casa non è più solo un luogo dove impari a conoscerti, dove vivi delle emozioni forti e dove la povertà ti dà uno schiaffo talmente forte da mettere in discussione tutto quello che hai fatto fino ad ora; ora è diventato un luogo di cui prenderti cura, con cui condividere le gioie e i dolori quotidiani e pensare a come migliorarsi. Ma la cosa straordinaria è che non sei sola ma sei in una comunità fatta di coraggio, di pensieri, di organizzazioni, di preghiera e di assoluta convinzione che per crescere bisogna mettersi in gioco, sporcarsi le mani come quando si cucina e si lavora la terra. Quel “compromiso” di cui si sente tanto parlare al Caef è questo: è saper ricevere per essere cambiati ma poi bisogna anche dare per far crescere e far cambiare. Ed è così che ho vissuto quei 30 giorni: accogliendo le difficoltà, facendo alcune cose per me “noiose” ma indispensabili, mostrandomi fragile con chi era più vicino e chiedendo aiuto. Questo è quello che ho fatto lì e che faccio anche nella mia vita, ormai non c’è una differenza forte tra “qua e la”, c’è la consapevolezza di due mondi che percorrono parallelamente la propria esistenza attraverso l’incrocio delle loro storie. Questo incrocio si vive e si percepisce quando sei lì e vivi quell’insieme di emozioni che ti fanno sentire dentro ad una lavatrice; l’ordine a quello che senti lo metti con l’aiuto di chi vive con te ogni giorno: i bambini, gli educatori, il gruppo, il Signore. Sai che c’è sempre qualcuno che ti ascolta e che condivide con te ogni momento; spesso lo fa in silenzio, altre volte, invece, sei costretto da una dinamica a scegliere un compagno, modellarlo come se fosse una poltrona, accomodarti e raccontargli tutto quello che stai vivendo. Ciò che ora resta di quell’incontro è il calore di un abbraccio, il profumo che ti avvolge, il suono di chi ti dice che fai parte di un puzzle e che, se ti perdi, lasci un vuoto che impedirà sempre di completare quella immagine.

 


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