Sara Ferri

Inizio a scrivere ascoltando “esto que soy esto te doy” e all’improvviso mi ritrovo la, in quella Casita che ci ha accolto per un mese, la Casa de Tuty, per tutti/e.Non serve che chiuda gli occhi, le immagini mi passano davanti come fossi ancora la, circondata dall’amore che mi ha avvolta in ogni istante.

Nella mia mano posso ancora sentire quella dei/delle bambini/e, fra le mie dita le loro. Vedo B. che mi viene incontro e mi stringe. Lo sguardo di B., il sorriso di M. Sento ancora la vocina stridula di Y. che fa la preghiera e quelle di K., A. che cantano con me “Amen”. Le risate di tutti e tutte, ma soprattutto quelle di L.. Li vedo correre, giocare, saltare, ballare, stringersi, fare la lotta e di nuovo correre e saltare e ballare e darsi calci, abbracciarsi, ridere.

Sento gli odori della cucina, il sapore del riso in bianco unito al kamote. Sento la frustrazione per trovare le attività e la gioia nel vedere che mi seguono in ogni parola, con lo sguardo, con il cuore. Sento il freddo della mattina e il calore della candela accesa la sera. La cura dei miei compagni, le parole che fluiscono con la poltrona giusta che ti ascolta. Sento incastrati nelle ossa tutti gli abbracci, le carezze, i baci. Sento la calma della notte li, la stanchezza del corpo, ma non dell’anima.

La canzone finisce, ora sento la tachicardia per il ricordo. Sento tutto ed è ancora così vivido che mi scorrono le immagini davanti agli occhi come fossero un film. Non so dire se mi manca, è stato tutto così tanto che penso che ci vorrà altrettanto tempo per metabolizzarlo. Il mio corpo piano piano si sta adattando di nuovo alla mia vita, ma in qualche modo sono ancora la con il pensiero, ma non solo. Lo sento dentro, sono li che canto con loro guancia a guancia.

Non pensavo mi sarebbe stato così difficile mettere per iscritto ciò che ho vissuto durante questo campo in Perù, partirò dall’inizio.

Dal diario di Sara, 1 agosto, il giorno prima della partenza: “Sto andando dall’altra parte del mondo e non vedrò praticamente nulla, eppure so che vedrò tutto quello che devo vedere. Non è un semplice viaggio, sto andando verso casa”. Ancora non sapevo e conoscevo nulla eppure avevo già capito tutto, stavo andando a casa. 

Già dai primi giorni a Lima ho capito che questo sarebbe stato più di un semplice viaggio. Costretta a scontrarmi con la realtà, toccando con mano la vita in sé, nella sua vera essenza, con le sue luci e le sue ombre, ho visto cadere le lenti della miopia di chi nasce casualmente privilegiato. Vedere povertà, violenza, odio, dolore, sussistere e convivere con gioia, speranza e soprattutto amore. Contrasti forti che paiono quasi ossimori messi l’uno accanto all’altro, eppure veri, nitidi e parte intrinseca alla vita. E li, tra il fango e le risate dei bambini che ci accoglievano da lontano che mi sono commossa per la prima volta di fronte alla sublime bellezza della vita provando una gratitudine sovversiva.

Da quel primo giorno in poi il mio sguardo si è abituato a cogliere quei piccoli, ma immensi episodi che mi hanno riempito il cuore ogni giorno e che hanno reso questo mese il più intenso della mia vita, sia emotivamente, che fisicamente.

Come F. che mi pulisce gli occhiali con la sua maglietta; E. che guarda attraverso il mirino della mia macchinetta fotografica e ci fa le foto; A. che mi stringe forte la mano e si appoggia alla mia guancia perché mi vede commossa durante la messa; L. che fa a tutte le trecce; B. che mi chiede il diario per scriverci una dedica; E. che balla mentre Titty le asciuga i capelli; L. che prima ride perché sono caduta e poi mi porta fuori per chiedermi come sto; i continui “come stai?” dei miei compagni e delle mie compagne perché stavo male ogni due per tre. Lily che mi prepara la zuppa solo per me proprio perchè non stavo bene; B. che mi aiuta ad apparecchiare così possiamo passare più tempo insieme; L. che mi sussurra sotto voce cosa scrivere nella sua lettera; Y. che mi chiede di disegnare insieme perché pensa mi stia annoiando; N. che mi chiede una foto mentre scala e K. che la aiuta a salire; M. che corre a prendere uno sgabello per darmi la sua sedia per poi pranzare insieme e scambiarci il cibo preferito l’uno dell’altro.

Sono arrivata pensando di dare e so di aver dato tutta me stessa, perfino il sangue, letteralmente. Eppure, non è paragonabile a tutto ciò che mi sento di aver ricevuto. Grazie alle condivisioni con il gruppo dei/delle volontari/e, alla guida di Alessandro, a modelli come Mary e Vanessa, ma soprattutto grazie ai/alle bambini/e, ragazzi/e, che nella loro spontaneità mi hanno insegnato cos’è il perdono, la fede, la resilienza, la gratitudine e soprattutto l’amore. Potrei racchiudere tutto ciò che ho vissuto nella parola Amore. L’amore con la A maiuscola, quell’amore incondizionato che non si può spiegare a parole, si può solo vivere. Credo che non fossi nemmeno pronta ad accogliere tutto l’amore che ho ricevuto, poi incredibilmente ti accorgi che di spazio ce n’è, ogni giorno di più, e che può amplificarsi ancora e ancora.

Il motto del CAEF è “rescatamos niños, inspiramos vidas”, beh la mia l’hanno sicuramente ispirata. Mi hanno insegnato che le cicatrici non si devono eliminare, che ci rendono ciò che siamo, ma non ci definiscono. Che ogni giorno è un nuovo giorno, si riparte da zero, con l’altro e con sé stessi. 

E così ho imparato a vivere ogni giorno come nella sua unicità, a vivermi intensamente ogni momento, ad assaporarlo nella sua dolce amarezza. A non giudicare e a contestualizzare, lasciar fluire, respirare. In questo modo ho scoperto la vera me, senza maschere. Così, nel mio essere forse troppo, forse troppo poco, mi sono sentita parte di un tutto, circondata da persone completamente divere tra loro, ma che insieme si stavano mettendo in gioco animati da un senso più ampio di unione.

E così grazie al gruppo ho vissuto la comunità.

Certo non è semplice convivere con 40 persone, eppure è proprio nella condivisione, anche quella più scomoda, che scopri te stesso e l’altro, cosa significa davvero la collettività, esserci, accogliere ed essere accolto.

E così ho conosciuto cosa significa la fratellanza. Io, figlia unica, per la prima volta mi sono sentita sorella maggiore e minore contemporaneamente, provando un affetto indescrivibile per persone sconosciute che sono diventate famiglia, trovando ciò che non sapevo di cercare. Sono ritornata bambina insieme a loro, ammirando la meraviglia riflessa nei loro occhi per le piccole gioie della vita: un albero verde, una strada affollata, un pezzo di pane con la marmellata.

Vorrei crescere insieme a loro, imparare a sognare di nuovo, ma per davvero, come fa M. che sulla carta scrive: “Que el mundo mejore y no haya maldad y vivir feliz”.

Vorrei la loro fede e la speranza che abbiamo sentito nelle loro preghiere prima di mangiare, a messa, dove il pensiero supera l’egoismo e ha sempre spazio per l’altro.

Mi fanno credere davvero che un cambiamento sia possibile, anche se pare utopico. Perché lo vedi nei loro sguardi, nei loro sorrisi, ma anche nelle loro lacrime e urla. Nel caos meraviglioso che è la vita, che vissuta insieme ha un sapore diverso.

Qui ho imparato l’importanza di mettersi sempre in discussione, di non avere paura di mostrarsi per come si è, anche nelle proprie fragilità. Che dobbiamo accogliere le emozioni, per quanto forti e dolorose esse siano. Che ci si può abbracciare invece di stringersi la mano.

“Eso que soy esto te doy”, questo sono, questo ti do. Qui si racchiude tutto, nella libertà di essere ciò che siamo e di amare, incondizionatamente, con la speranza di un futuro che si costruisce insieme, per mano, giorno dopo giorno.

Era da anni che sentivo questa attrazione per il Perù, non ho mai ben capito perché finchè non sono arrivata alla Casa di Tuty. Dovevo trovare me in loro, loro in me.

Ora sono in un’altra casa, dall’altra parte del mondo, e mi sembra che le cose abbiano un sapore diverso, ma ancora sono troppo frastornata per capirlo. Forse ho paura di tornare troppo facilmente alla mia vita di sempre e che la distanza fisica renda tutto ciò che abbiamo vissuto solo dei ricordi lontani. Eppure, la gratitudine mi avvolge, sento che tutte le anime meravigliose che ho incrociato in questo mese ormai facciano parte di me e che questa esperienza me la porterò dentro per sempre.

“Cuidate” dice M, prima di salutarmi, mi commuovo. Si, mi prenderò cura di me e per quanto potrò mi prenderò anche cura di voi a distanza con la speranza che di ricordi insieme ne costruiremo ancora tanti.

Non so quando, non so ancora come, ma so che tornerò a casa.

Grazie, os quiero mucho.

 

 Sara

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