Ginevra Badoer

Condividere.

“Raccontami tutto” mi disse Ludo prima di partire per il campo. Con lei ho condiviso le prime due esperienze al Caef e grazie a quella piccola casetta ci siamo conosciute e abbiamo imparato a leggerci l’una con l’altra, a condividere quello che abbiamo dentro, a trovarci e ritrovarci in un semplice abbraccio, nel quale ci avvolgiamo ogni volta che ci vediamo (purtroppo non così spesso come vorrei, dato che viviamo in due parti diverse dell’Italia). Ma anche condividere con lei, che conosce perfettamente luoghi e volti, le emozioni e le sensazioni che ho provato in questo mese è difficile, non so bene come sarà raccontarlo a voi. Può suonare un po’ strano con quello che ho scritto poche righe fa, ma credo che il filo conduttore di questo mio campo sia la condivisione.

Al Caef ogni cosa che succede ed ogni emozione che si prova viene ampliata alla massima potenza: ogni risata è una risata di gusto, come quelle che ti fanno venire il male alla pancia e le lacrime agli occhi, così come ogni piccola sconfitta viene vissuta come la delusione più grande della vita. Condividere il tutto con le persone che vivono con te questa esperienza è una possibilità preziosa: non solo ti permette di comprendere meglio quello che senti, ma anche di ridimensionarlo e puoi fare tesoro delle parole che gli altri ti donano durante le loro condivisioni, grazie alle quali puoi anche leggere in una chiave diversa il tuo campo. In questo mese le parole che mi sono state donate dai miei compagni di viaggio sono state davvero tante e molto profonde: in molti hanno condiviso con me le loro paure, le loro aspettative, le loro ansie, i loro malcontenti, le gioie e le sofferenze, pezzi di esperienza e di vita.

Come ho detto durante l’ultima condivisione lunga che abbiamo fatto al campo tutti insieme, durata ben 7 ore, quello che porto a casa da questo mese non è tanto quello che ho fatto fisicamente e materialmente, quanto quello che ho vissuto e gran parte di questo è dato proprio dalle lunghe chiaccherate con Mike, dalla passeggiata in Campiña con Chiaretta, durante la quale ci siamo raccontate le prime due settimane di campo, i momenti in camera con Alice ed Ele, mentre cercavamo di riordinare le idee per fare audio infiniti a Ludovica, i mate e le sigarette (che non fumo) in compagnia prima di andare a dormire. Porto a casa anche una manciata di parole di J.M., uno dei ragazzi più grandi del Caef che, una sera, nel bel mezzo di una festa, mentre tutti ballavano e cantavano nel comedor del Caef, in piedi in un angolo, tra la scelta di una canzone e l’altra da mettere, inizia a raccontarsi. A J.M. non piace ballare ed è davvero difficile convincerlo anche solo a muovere le braccia a destra e a sinistra. Io sapevo benissimo questa cosa, ma nonostante ciò gli ho chiesto il perchè non fosse in pista insieme a tutti gli altri. Da quella semplice domanda si è creato un discorso che lo ha portato a condividere con me piccoli spezzoni della sua vita prima di arrivare al Caef. Purtroppo il nostro discorso è stato bruscamente interrotto all’improvviso e non abbiamo più avuto modo di continuarlo, ma quelle poche parole che J.M. mi ha donato sulla sua storia e sulla sua vita sono per me un dono prezioso, che custodirò sempre.

La condivisione è fatta anche di sguardi, gesti, coccole e carezze. E anche di queste potrei scrivere un sacco di cose, ma vorrei condividere con voi solo un momento, forse uno dei più dolci vissuti al campo. Tutte le mattine, al terzo suono della sveglia, quando ormai eravamo in ritardo per la preghiera, aprivo gli occhi e chiamavo tutte le mie compagne di stanza per farle svegliare. Tra queste c’era Claudia. L’ultima domenica lei si è alzata e si è subito voltata verso di me. Ero sveglia, con la testa sul bordo del letto a castello (dormivamo io sopra e lei sotto) e con una dolcezza disarmante si è avvicinata a me e, dopo avermi sorriso, ha appoggiato la sua testa sulla mia. Siamo rimaste così, in silenzio, per parecchi minuti. Poi ci siamo abbracciate forte, io sporgendomi dal letto appoggiata sulle sue spalle e lei in piedi, con le braccia intorno a me. Il calore e la dolcezza di quell’abbraccio mi hanno riscaldata e cullata per tutto il giorno. Lo scrivere di questo e il condividerlo con voi mi riporta a quel momento e mi strappa un sorriso.

Una delle cose più belle che mi è capitato di condividere durante questo mese è la soddisfazione per il lavoro che abbiamo fatto a Torres. Abbiamo parlato del tema dei rifiuti, dell’inquinamento, dell’importanza di prendersi cura del posto in cui viviamo, non solo per l’ambiente e per cani, galline, pecore e ogni altro strano animale che puoi incontrare tra quelle baracche, ma anche e soprattutto per noi. Potrebbe anche non sembrare così, ma affrontare un tema come questo in un posto come Torres non è per niente facile. Non solo li si è immersi nella spazzatura, non solo spesso non si ha altro che quello, ma ci sono anche molti loro modi di fare sbagliati, che non è semplice cambiare (e spesso neanche rispettoso). Mi riferisco, per esempio, alla loro consuetudine di bruciare i campi tra una coltivazione e l’altra per ripulirli più velocemente. Tutti sappiamo che è estremamente dannoso per l’ambiente e poco funzionale, dato che il terreno si impoverisce tantissimo, così facendo, ma se provi a spiegare questo ad un contadino peruviano, dubito che il risultato che porti a casa sia positivo.

Con i bambini, ovviamente, abbiamo affrontato il tema in una chiave più semplice, ma ho fatto davvero fatica a trovare degli esempi di comportamenti sbagliati che facciamo tutti i giorni che potessero andare bene per svolgere l’attività a Torres. Non puoi dire loro che il fare la doccia è meglio che il bagno nella vasca, perchè loro non hanno tante possibilità di scelta sul come lavarsi; così come per il preferire la bicicletta alla macchina, l’evitare di lasciare la luce accesa quando si esce da una stanza, perchè in moltissime case a Torres la luce non c’è neanche.

Nonostante tutte le difficoltà, però, il lavoro che abbiamo fatto è stato davvero bello e i bambini si sono divertiti molto e hanno anche imparato a non buttare le carte per terra (cosa super comune lì), a raccogliere i rifiuti che trovano in giro, a non buttare nulla nell’oceano. Hanno imparato che i rifiuti sono composti da materiali diversi e che con questi materiali si possono fare tante cose, come costruire macchinine con bottigliette vuote, tappi e cannucce. E condividere le gioie e la soddisfazione di questo risultato con gli altri compagni di lavoro è stata una delle cose più belle del campo. “Condivisione” al Caef vuol dire anche tante altre cose: condivisione di spazi, tempi, momenti. La verità è che non hai molta alternativa, perchè il Caef non è tanto grande e per un intero mese è abitato da una cinquantina di persone. Ritagliarsi un momento di silenzio personale, per fare le proprie cose, mettere in ordine i pensieri, leggere un libro, non è molto facile. Ma questo è anche uno degli aspetti che amo di più di questa esperienza e quello che, alla fine, ti permette di entrare in sintonia con chi ti circonda, di conoscere le persone per davvero, di andare a fondo, di guardare negli occhi chi hai di fronte.

Condvidere è bello: arricchisce, insegna, aiuta, crea, forma. Un’esperienza come questa, se non fosse condivisa, non porterebbe così tanti frutti e non sarebbe così speciale, come invece è.


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