Benedetta Di Saint Pierre

Ritorno alla vita

"Capirai quando tornerai."

Questo mi è stato detto nella mia ultima notte al CAEF, momento in cui non capivo esattamente cosa fosse successo in quel mese, non capivo esattamente che fosse già passato un mese, perché lì era tutto un susseguirsi di emozioni, lavori, sorrisi, azioni. Lì mi svegliavo con una missione, con una giornata piena di concretezza, e mai un momento per pensare a ciò che sarebbe stato il dopo. Probabilmente di momenti ce ne sarebbero anche stati, ma io non li ho né cercati, né accolti. Non ho cercato casa, non ho cercato un contatto con il mio reale e il mio quotidiano, mi sono limitata all’immediatezza del tutto, senza riserve, senza tirarmi mai indietro. A volte mi pareva quasi impossibile che potesse sul serio esistere qualcos’altro e che non fosse solo un sogno, una vita passata, ma proprio una vita messa in pausa dall’altro lato dell’oceano. Non pensare ai mei resti di vita mi ha aiutata, mi ha dato la libertà di essere autenticamente nel posto in cui ero, senza fantasmi da portarmi dietro, però mi ha anche lasciata senza punti di appoggi nel momento del ritorno.

E credo proprio che la sfida più grande sia questa: il ritorno. Se si dovesse valutare la buona riuscita di un’esperienza dalla difficoltà con cui ce ne si distacca al suo termine, ecco, questa sarebbe in cima ad ogni elenco. Il fatto è che non ci si può limitare a questo. Non è stata “una bella esperienza fatta quest’estate”, non è stata “l’esperienza di una nuova realtà”, è stata vita. Sono stata un mese felice, nell’uso più banale di un termine così difficile da incontrare sul serio. Ho avuto la possibilità di svegliarmi presto tutte le mattine nell’indistinto vociare della casa, dopo aver dormito troppo poco per troppe notti di seguito, ma con un sorriso sulle labbra, sapendo che la giornata sarebbe stata ricca di cose in cui credevo.

Il CAEF (Centro de Atencion y Educacion a la Familia) è una ONG legata al governo peruviano che lavora dal 1997 a Trujillo, cercando di dare aiuto e assistenza ai minori vittime di violenze in ambito familiare e che è riuscita negli anni a costruire quattro progetti distinti: la Casa de Tuty e altri tre progetti educativi nella Campiña de Moche, a Torres de San Borja e a Taquila.

Io ho avuto la possibilità di lavorare in questi due ultimi progetti, facendoli diventare realtà che mi sono appartenute per un mese ma che a riguardare oggi attraverso le foto mi fanno venire la pelle d’oca.

Il mio momento preferito della giornata era l’arrivo: si doveva andare a chiamare personalmente ogni bambino a casa sua! Si iniziava con qualche colpo discreto alla porta e passando per dei “buenos dias” a voce sempre più alta si arrivava alla timida apertura della porta, accompagnata da un grande sorriso del piccolo che abita una casa spoglia ma piena di vita. Con il mio spagnolo maccheronico cercavo di interagire con i rari genitori che incontravo, cercando di mostrare tutta la cura che stavamo rivolgendo verso i loro figli in quei giorni. All’inizio ero dubbiosa, con la sensazione di trovarmi fuori luogo, esclusa da meccanismi a me estranei, invece è bastata la fiducia che tutti quei bimbi mi hanno rivolto per farmi sciogliere e muovermi per quei luoghi come se fossero una casa in cui non tornavo da tanto tempo. E poi via, raccolto un vivace gruppetto si tornava correndo verso il comedor, pronti ad iniziare una giornata programmata nel dettaglio nei giorni prima, ma non stupendosi più che non filasse tutto come previsto. Terminato il tempo a nostra disposizione in quei luoghi tornavamo al CAEF distrutti e tutti insabbiati, facendomi sentire tanto pulita dentro quanto invece ero sporca fuori.

A Torres abbiamo portato avanti un percorso sui cinque sensi, cercando di dare ai piccoli maggiore consapevolezza del loro corpo e delle loro possibilità. Sono indimenticabili le loro reazioni dopo aver assaggiato aceto e peperoncino, o la confusione nel mangiare del cioccolato amaro, così diverso dalle loro abitudini. Questo lavoro ha reso anche me più cosciente, facendomi sentire come se a volte non avessi orecchie o occhi abbastanza grandi per assorbire tutto quello che lì stavo vivendo.

Ho avuto la possibilità di incontrare persone che mi hanno mostrato un amore disinteressato e limpido, in cui ciascuno desidera imbattersi durante il proprio cammino, e per questo sono grata. Questo senso di gratitudine mi ha accompagnata immancabilmente tutto il mese, rendendomi consapevole dei doni di cui la mia vita è piena. Mi sono ritrovata faccia a faccia con le mie limitazioni più ingombranti, alcune sono rimaste lì stagliate di fronte a me, altre sono riuscita ad accettarle, cercando di rigirarle come mie alleate.

Ho diciott’anni, proprio come il CAEF, una somiglianza che mi ha sempre fatto molto sentire tirata in causa. Per me quest’anno è stato il cardine di una nuova porta che si apre: poter dire la mia sul serio, terminare il liceo, iniziare l’università e sentirmi parte attiva di ciò che mi circonda. Il fatto che il CAEF abbia la mia età indica la sua possibilità di iniziare a camminare sulle sue gambe, prendendosi sempre più il suo spazio nel mondo e il riconoscimento che  merita. Ho diciott’anni e credo che in ogni parte del mondo ci si possa sentire a casa, basta crearsi il proprio spazio, il proprio posto giusto, perché il momento giusto è costante. Sono entrata a contatto con tutto questo al momento giusto e quindi ho cercato di costruirmi il mio spazio in quel posto magico che tanti di noi chiamano casa. Io non so se ne abbia il diritto. So solo che mai sono stata così bene in qualche luogo, so che nemmeno a casa mia sto così bene. Probabilmente non sto ancora capendo quanto tutto questo stia significando per me, ma rimango qui ad aspettarne i frutti e intanto continuo a lavorare per far crescere un progetto in cui credo totalmente.

Ho sperimentato un mese di autentica vita e ringrazio per questo, perché ogni notte vado a dormire con lo stomaco chiuso ma il cuore aperto, ricordandomi nel silenzio della mia camera vuota i suoni che invece rendono il CAEF così vivo.


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