Dia 5 - primi passi in primi giorni

Finalmente un giorno tutto intero da trascorrere nella meta per cui siamo partite. J ci ha chiesto qual è la prima cosa che abbiamo visto una volta aperti gli occhi. Ritorno col pensiero al primo mattino. Vedo un letto sopra la mia testa, un materasso coperto da lenzuola con disegni colorati. Tolgo i tappi dalle orecchie e osservo una stanza un po’ silente un po’ russante di corpi che dormono. Tempo di risistemarmi e di grattarmi le punture di insetto mi metto su un patio di cemento, circondato da globos volantes, grandi palloni verde azzurri e gabbie di conigli a cercare di allungare muscoli e allentare tensioni accumulate da giorni di viaggi. Si avvicina un gruppetto di ragazzine che mi dicono che sono hermanas - ed io non capisco se il loro è un legame biologico o si chiamano tra loro fratelli e sorelle tutte coloro che vivono qui - che mi salutano e tornano in camera. Dopo poco vedo che uno di loro mi guarda incuriosito dalla finestra. Faccio lui un cenno con la mano e lo invito a fare quello che faccio io. Per prima cosa respirare. Quattro tempi per inalar e cinque per exhalar. Iniziamo a tirare il collo e le spalle che mi dice che gli danno dolore. Nell’imbarazzo fa qualche verso di benessere ed io sorrido, ché in quei punti soffro pure io.

​Prima di ogni cosa il gruppo di volontarie si riunisce per un momento di riflessione collettiva. All’ingresso con un libro in mano in cui risalta il volto di Don Milani iniziamo a leggere e a condividere parole che possano darci nutrimento per vivere al meglio il giorno e i giorni a venire. Dopo una colazione veloce con pane, marmellata, caffè solubile e un thè con chiodi di garofano e cannella è il momento di una prima chiacchierata con le coordinatrici e la psicologa dal Caef. Ci viene chiesto di scaldare corpo e mente, di intonare un canto che gusta mucho alle bambine, un canto che parla di speranza e della possibilità con questa di far muovere le montagne. Viene poi l’ora di una introduzione al luogo in cui viviamo. Si tratta di una solida teoria su cui si fonda l’azione che tutti i giorni le educatrici di questo luogo portano avanti. Il perno di tutti i discorsi è porre al centro la bambina e il bambino, i loro bisogni, i loro desideri, la possibilità attraverso un percorso lungo di dare loro la capacità di capire cosa sentono, di decidere cosa vogliono, di dire no quando per loro è no. E ancora l’importanza di andare al di là dell’apparenza che si ha di un viso che sorride o si nasconde in un angolo, e vedere oltre questo tutta una storia sotterranea a cui quel viso si lega, un vissuto intessuto di violenza e abbandono che a che fare non solo con quel bambino o quella bambina, ma con los abuelitos, i padri e le madri, e le generazioni che dopo di loro verranno. Si tratta di interrompere un cerchio, di mettere fine o di incanalare altrove dolori e sofferenze che si ripetono. Sono parole di lotta e speranza le loro, quelle di queste donne fantastiche che abbiamo di fronte, parole di chi ancora non si arrende credendo in un mondo migliore. Suoni che usciti da queste labbra non suonano come retorica né utopia.

​Sarà poi il momento del pranzo, non prima di uno spettacolo – il secondo in due giorni – offerto a noi, ospiti incuriosite, su una storia d’oppressione di chi ha la pelle nera e di cui si riesce a parlare ridendo senza mai banalizzare. Ci regalano poi un banchetto in cui i colori e gli odori dominano: sono i cibi della selva, della sierra e della costa. Un frutto di qua, una patata di là, un succo giallo e denso versato nel bicchiere. A chiedere i nomi arrivano risposte entusiaste e forse anche un po’ orgogliose di chi sa di vivere in una terra dove tante cose differenti crescono. Mangiamo il pranzo tutte insieme, sparpagliandoci per i tavoli, dove inventiamo giochi e domande da fare per passare un bel momento. E così anche tutto il pomeriggio. Basta un po’ di immaginazione, o conoscere un gioco semplice da proporre o da inventarsi lì sul momento. Sotto un cielo senza nuvole si gioca a palla, si fanno cose con le mani, si provano coreografie. Oppure ci si schianta l’uno con l’altra con una palla davanti alla pancia, o si inventano negozi di sogni. A quest’ultima una ragazzina ha chiesto di poter avere qui la sua famiglia, per vivere con le altre bambine, tutte insieme, in un regno di cioccolata dove non c’è povertà.

​Le ore scorrono in fretta fino alla cena delle 7, dove ancora una volta ci rimescoliamo con i bambini e le bambine e ancora una volta inventiamo domande da farci. Ci chiediamo i nomi, quanti anni abbiamo, come si chiama quel ragazzo laggiù nell’altro tavolo. Qualcuna ride, qualcuna applaude, qualcun altro mangia in silenzio. Presto le bambine ci salutano dandoci appuntamento per la mattina, non prima di averci dato un abbraccio o allungatoci una mano o un dito. Per noi volontarie invece prima di andare verso la doccia, il letto o le ultime chiacchiere c’è ancora il momento del cerchio. Sedersi comode, ripensare agli ultimi due giorni trascorsi, cercare una immagine, una che sia propria, una che ti ha scavato dentro un solco. Naturalmente si piange, naturalmente si ride. Non possono mancare poi le ultime comunicazioni, sempre tante, con tutte le cose che ci sono da fare o organizzare.

P.S.: ho dimenticato di dire qualcosa che un po’ la mia giornata l’ha segnata. Con altre volontarie ho dovuto pulire il bagno. Ma ho pensato che questa ve la potevo risparmiare.

Antonino (Padova)


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