Arrivederci
Oggi sono successe tante cose.
Dopo aver fatto colazione abbiamo sgomberato le camere, tolto le doghe dai letti. Improvvisamente le stanze erano vuote, i pavimenti puliti, le valigie fuori dalla porta. Il cielo era bianco, la partenza sempre più vicina.
Con JP abbiamo giocato ai pirati. Lui aveva sull’occhio una benda di carta appiccicata con lo scotch, i baffi disegnati con il pennarello. Abbiamo creato una mappa e siamo andati a nascondere il tesoro. Lui mi ha dato un bacio lunghissimo nella guancia e mi ha tenuta stretta stretta. Alla tv c’era un episodio di Zig e Sharko in cui una stella marina si innamorava di un paguro che però doveva andare via.
L. parlava da sola. Glielo abbiamo chiesto, con chi parlava? Con il freddo. Era arrabbiata che non ci fosse il sole.
Siamo andati al campo al lato e avevo A. sulle spalle che sussurrava “campo! campo! campo!”
Una volta arrivati lei si arrampicava nel tetto di una casetta di plastica. Non voleva essere aiutata a salire, solo non essere sola. A volte scivolava e la tenevo.
Al campo JP mi è salito sulle spalle, ha preso la cassa con la musica, e abbiamo corso velocissimi. Lui rideva. Inseguivamo Greta che aveva sulle spalle G. I piccoli dicevano “più veloci!” e noi correvamo più veloci, anche se avevamo il fiatone. I piccoli ridevano.
A. ha quasi imparato a pattinare da sola, prima aveva bisogno di essere tenuta da due mani, oggi ne è bastata solo una.
E. si è addormentato accanto a me guardando il cielo bianco. Poi siamo tornati a casa per il pranzo.
Mi sono segnata tutte queste cose mano a mano che succedevano nel corso della mattinata per non dimenticare niente, per non lasciar sfuggire nulla, per tenere tutto stretto stretto, chiudere ogni ricordo, come se potessi sigillarlo nei barattoli di marmellata alla fragola. Sigillarlo, per portarlo con me. E non farlo finire mai.
Il tempo è passato troppo in fretta.
Stasera siamo usciti dalla casa velocemente, quasi di corsa, con le lacrime agli occhi. Siamo proprio lontani, da casa. Ora sono appena salita in pullman e mi sento già lontana. Mi sento già troppo lontana.
La casa in cui siamo entrati il primo giorno era molto diversa da quella da cui siamo usciti oggi. È sempre la stessa ma è diversa (un po’ come noi). Ora ci sono porte nuove in legno, tutte disegnate e colorate. Pavimenti pitturati, giochi, disegni nei quaderni, dediche nei diari. Quanto dureranno? Quanto passerà prima che i disegni si cancellino? Che le porte si rovinino? Questa casa è fatta di strati. Ogni anno qualcuno aggiunge qualcosa. Poi qualcun’altra cancella, scrive sopra, ricrea. È come se potesse respirare.
In qualche strano modo ci siamo tutti segnati a vicenda. Bambini, adulti, ragazzi. E abbiamo tutti imparato a conoscerci, ad amarci. Nemmeno noi siamo gli stessi. Nel pullman per tornare a Lima penso ad ogni istante passato nella casa e mi sembra durato un’eternità. Mi sembra che mi abbia segnato, che mi abbia scalfito per sempre, come una goccia che scava la pietra, con dolcezza ma per sempre.
Abbiamo imparato a prenderci le mani, a coccolarci, a volerci bene, a chiederci scusa, a lasciarci spazio. Non è stato un cambiamento, ecco, è stata una trasformazione. Piano piano ci siamo fatti tutti simili. Piano piano abbiamo capito qual’è il segreto per amarci, nonostante il dolore, nonostante le distanze. Abbiamo parlato con lo stesso cuore. Io l’ho davvero sentito. Forse è per questo che mentre scrivo mi vengono le lacrime agli occhi.
Di pomeriggio il cielo era blu, e non c’era più freddo. Abbiamo ballato, abbiamo giocato. Ci siamo scritti le dediche nei diari. Lasciare un segno. È proprio questo il punto, quello che rimane dopo questo mese ha una forma chiara, un segno indelebile. Non ci siamo passati accanto senza infierire l’uno sull’altro. Ora siamo diversi, siamo altri. Siamo stati insieme.
Di sera abbiamo festeggiato ancora il compleanno della dolce B., ha compiuto gli anni ieri ma l’abbiamo festeggiata ancora.
Ad un certo punto doveva scegliere qualcuno con cui ballare un walzer e ha chiamato me. Mi ha preso le mani e all’inizio nessuna delle due sapeva come iniziare a ballare, mi ha abbracciato, ha avvicinato la testa aspettando un bacio.
B. quando vuole essere coccolata mi afferra le mani e le tiene strette, e mi porta con sé. Io le lascio i suoi spazi, lei si prende, con dolcezza, i miei. Penso che abbiamo proprio trovato i modi giusti per volerci bene.
Questa casa è stata un posto magico, io sono onorata di averne fatto parte. Ai bimbi tristi per la partenza dicevo di non preoccuparsi perché “no existe despedida”, non esiste la ripartenza. Forse è impossibile andare via, sento un forte senso di appartenenza e so che non se ne andrà. Che la Casa abiterà dentro di me sempre. E in qualche modo anche io. Dentro ai disegni sulle porte, nei pavimenti colorati, dentro a qualche cuore. Ho amato questo mondo pazzo e senza orari in cui la sofferenza non ha l’ultima parola.
Anna Po


Aqui estoy
Oggi è arrivato il giorno che sembrava lontanissimo, ma eccomi qui, appena varcata la soglia della porta del Caef, seduta sul bus, con un cuore pieno di gratitudine, un po' di malinconia e una sensazione di pienezza.
La giornata è iniziata lentamente. Non ho sentito i soliti rumori dei bambini che normalmente mi svegliano, oggi è sabato e loro ancora dormono. Mi alzo con la consapevolezza che stanotte non tornerò a dormire in questo letto. Mi preparo per l’ultima preghiera e riflessione mattutina di questo campo. Dopo la preghiera, facciamo colazione, ma noto un po’ di tristezza sui volti dei miei compagni di viaggio. Persino la radio di Lily, la cuoca, che di solito trasmette salsa e reggaeton, oggi suona una musica malinconica. Nessuno di noi protesta, la cucina che per un mese è stata piena di canti e balli, oggi è più silenziosa del solito.
Finisco di fare colazione e mi sbrigo perché ci sono ancora tante cose da fare. Salgo e, insieme alle mie compagne di stanza, riordiniamo la camera. Mentre pulisco, rifletto su quanto siamo state armoniche nonostante le nostre diversità. Mi mancherà vedere le loro facce mezze addormentate la mattina, i buongiorno, i sorrisi, i pianti, le risate e le confidenze. Non ho molto tempo per pensare a tutto questo perché Susy mi aspetta per finire l’inventario. Così cataloghiamo le ultime scatole e rimango sorpresa e soddisfatta nel vedere quanto abbiamo raccolto: più di 800 scatole di medicine, oltre mille capi di vestiario e più di trecento tra giochi e libri. Tutto è stato sistemato in 15 scatoloni, un segno tangibile che questa casa è sostenuta da una catena di amore lunghissima. Mi chiedo quante mani abbiano toccato le nostre donazioni e quanti bambini indosseranno i vestiti che ho impacchettato.
Quando finiamo di inscatolare, Davide ed Elena mi aiutano a riordinare la stanza dove abbiamo trascorso tanto tempo. È tutto così in ordine, ma dentro di me sento un vuoto.
Arriva il momento del pranzo, e ne approfitto per stare ancora un po’ con i bambini, coccolarli un po’. B mi sorride più sicura e scherzo dicendole che la vedo più grande perché ha un anno in più (ieri era il suo compleanno). A.L mi abbraccia forte e mi dice che vorrebbe che tornassi l’anno prossimo. Le rispondo che mi mancherà tanto, ma le ricordo che continueremo a sentirci su Zoom, grazie al progetto comunicacion viva come abbiamo fatto questo inverno. Dopo pranzo, mi trattengo un po’ per giocare con i bambini, sono gli ultimi momenti insieme e voglio godermeli. Allora ci mettiamo tutti a cantare "Vuelve" , chi a squarciagola, come M. E chi piano piano come N. quasi come se fosse quello che tutti noi speriamo. Intanto arriva Mari che saluta tutti dolcemente, sono tante le cose a cui pensare prima della nostra partenza, ma lei e li con noi per salutarci. La osservo mentre lava qualche piattino rimasto in cucina, e lei incontra il mio sguardo e mi sorride.
Mentre sono seduta sulle scale, i bambini mi seguono e mi chiedono di lasciare una firma o una dedica sul loro quaderno. Non posso farmi sopraffare dalla tristezza, quindi con Arianna, Elena ed Elisa balliamo, come sempre, il ballo "Jerusalema". E le bambine ci seguono divertite, è di nuovo festa. Nel frattempo, le camere si svuotano e le nostre valigie occupano un’intera stanza. Il momento dei saluti si avvicina.
Terminiamo il nostro viaggio con una messa. A. mi guarda, mi sorride dolcemente e dopo poco si siede in braccio a me e si addormenta. Il Vangelo di oggi mi ricorda che Dio è nel nostro prossimo, e che ogni atto di amore verso i più piccoli è un atto di amore verso di Lui. Non c’è modo migliore di chiudere questo campo.
Arriva il momento della preghiera e L. prega per noi, affinché torniamo a casa felici, andando avanti. La sua maturità mi commuove. Mi guarda con gli occhi lucidi e mi sorride. Poi arriva il momento della comunione. Cantiamo un canto in italiano e mi sorprende vedere i bambini cercare di imitare le parole, come se volessero seguirci. È una metafora perfetta della nostra relazione con il personale del Caef, dove, nonostante le differenze, ci si avvicina, si impara a fidarsi e a seguirsi reciprocamente.
La messa finisce e, in perfetto stile Caef, arriva una sorpresa per B. Una famiglia di donatori le ha regalato un'altra festa. Ridiamo, scherziamo, balliamo e tutto termina con la torta.
Il momento più difficile si avvicina: i saluti. È difficile per noi volontari lasciare questo posto magico, questo rifugio sicuro non solo per i bambini, ma anche per noi. Qui siamo stati liberi di essere noi stessi, con le nostre gioie e le nostre fatiche, e siamo sempre stati accolti. Mentre abbraccio tutti e stringo mani, mi tornano in mente le parole scritte da Judith all’ingresso, ripetute poi da Mari durante la formazione: abbiamo la capacità di impattare fortemente la vita degli altri in modo positivo. L’immagine che Mari mi ha lasciato è quella di una candela che illumina la vita degli altri. Questo è il Caef per me, questo è ciò che Caef e CDP fanno per i 23 bambini e per noi volontari. Illuminare le nostre vite con tanta speranza, ricordandoci che possiamo sempre sognare. In un mondo che sembra dire tutto il contrario, questo messaggio è davvero rivoluzionario.
Mentre batto le mani dei bambini per salutarli, ricordo le parole scritte nella targa: “Aqui estoy”. Sono qui, con le mie forze limitate, per avere e portare speranza. Che nonostante il dolore si può andare avanti. Qui al caef si ama la vita in tutti i suoi colori. E queste parole mi consolano, ricordandomi che non sono sola, che appartengo a questo posto e che questo posto mi appartiene. Spero di poter portare questa speranza e questa luce anche nella mia vita. Grazie, Caef. ¡Hasta pronto!
Martina