Dia 25 y 26 - Mille di giornate come queste

Il grande giorno è arrivato! Sabato è un giorno speciale perché 18 bambini hanno ricevuto il Battesimo. Mai mi era capitato di battezzare così tanti bambini in una volta. Una gioia immensa!

Mi chiamo Alessandro ma qui in Perù mi chiamano “padrecito”; sono il Gesuita del gruppo. La prima volta che ho incontrato questo posto meraviglioso che è la Casa de Tuty era 10 anni fa; contando l’assenza dovuta alla pandemia, è l’ottavo campo che faccio. Accompagno spiritualmente il gruppo dei volontari; mi occupo della preghiera mattutina e della rilettura serale della giornata. Quest’anno ero inserito anche nel gruppo dei “grandi” e mio compito era preparare ai sacramenti un bel gruppo di bambini non solo del Caef ma anche delle famiglie appartenenti al progetto “Compartir”. Oltre ai battesimi, 5 bambini hanno fatto la comunione per la prima volta.

Fin dalla mattina presto la casa ferveva per i preparativi: le acconciature delle fanciulle e delle volontarie, le tuniche bianche da indossare, litigi da sedare e infine l’occorrente per la festa che seguirà la celebrazione.

Nella cappella del noviziato dei Francescani a Torres de San Borja era tutto pronto e alle 11 abbiamo iniziato puntuali. Una fila di bambine con le loro coroncine di fiori sul capo e di bambini vestiti di bianco guardava con occhi felici. È stato emozionante avvicinarsi a ciascun bambino per i vari segni del rito, sfiorare i loro volti, cospargere il loro capo di acqua e soprattutto leggere nel loro sguardo la gioia e l’affidamento all’amorevole Grazia di Dio.

Il rito, molto ricco di segni, ha fluito senza intoppi e dopo le foto di rito ci siamo spostati nel “comedor” del convento per condividere la festa e… la torta!

Il pomeriggio è stato il tempo per rilassarsi un po’ prima… di un’altra festa! Quella del compleanno di B. il cui racconto lascio alle parole di Francesco.

Alessandro (Torino)

Come se non bastasse la quantità di zucchero assunta durante le celebrazioni post-battesimo, a rincarare la dose di glucosio ci ha pensato la dolcezza della nostra amatissima B., non che la sua torta di compleanno, la cui ricetta prevedeva zucchero, zucchero e ancora più zucchero. La sua festa è stata allietata dalla presenza di noi tutti e della famiglia Valdivia che sempre più spesso accompagna i ragazzi del Caef durante i loro momenti importanti. Gli occhi felici della festeggiata hanno scaldato il cuore a tutti.

 


Francesco (Roma) 


La giornata termina con una bella cena a Huanchaco, ci dividiamo in gruppetti e ognuno passa la serata come più desidera, c'è chi si gusta un po' di ceviche, chi una cena in un localetto con musica dal vivo molto tranquillo nel quale finalmente si possono mangiare verdure, e chi si gode una bella serata ballerina in un locale in riva al mare

    

Raccontare un giorno pieno di emozioni come un fiume riempitosi dopo una lunga pioggia non è impresa facile. Si rischia di lasciare indietro pezzi fondamentali, che impediscono di vedere il quadro, di rivivere un momento di ciò che è passato perché la memoria trattiene lo que quiere, e le sue leggi risultano ancora essere sconosciute. Ma resta necessario sempre compiere lo sforzo di riflettere, per donare a sé stesse il rivivere l’attimo e donare alle altre la possibilità di attraversarlo mediante un'immagine, un frame, una parola che risuona come la vibrazione dentro il petto.

Così è cominciata la mia prima giornata. Parole che vibravano l’aria e la pelle. Stamattina era la volta dell’ultimo incontro con las mamas, dopo settimane passate a parlare al telefono o alla porta del Caef per consegnare gli alimenti o ancora incontrarle nelle loro case dove eravamo noi a porre loro domande sulla propria vita, sulle proprie giornate, sui propri figli. Stamattina sono venute qui, perfettamente in orario, mentre noi eravamo in ritardo. Prendendocela comoda, dopo una nottata di musica e balli sudamericani ai bordi dell’oceano, siamo arrivate troppo in là, abbiamo speso il nostro tempo a svegliarci col caffé o con pan y queso, e a fare una delle ultime chiacchiere che si fanno la mattina, mezze assonnate, mezze svegliate dalle energie che dentro si muovono la mattina. Abbiamo dovuto poi correre, su e giù per le scale a raccogliere pacchetti, pulire - male - il pavimento, impostare sedie in cerchio, litigare col proiettore e le maledette prese che o non ci sono o sono lontane.

Ecco allora che con mezz’ora di demora apriamo loro la porta. Le accogliamo con un sorriso imbarazzato: siamo tese. Le facciamo sedere in semicerchio, abbiamo preparato una presentazione. Ma prima non può mancare Judith che con le sue parole apre sempre cuori. A noi poi resta il fardello di continuare, ma ce la mettiamo tutta. Un po’ imbarazzate, un po’ sudate portiamo alla fine la presentazione, mostrando un video che sembra colpirle. Queste immagini colorate e musicate raccontano di ciò che è e vuole essere l’empoderamiento, empowerment diremmo noi, ovvero, in questo caso, e forse un po’ banalizzando, percepirsi forti, indipendenti, capaci, interessate, che si mettono assieme per trasformare troubles in issues, porque juntos es mejor

Per spezzare un po’ la timidezza usiamo un gomitolo, un filo di lana dai mille colori che passa di mano in mano, per almeno un dito nostro o delle madri per dire una parola di ciò che abbiamo sentito, ma soprattutto per legarci, nell’effettivo e nel simbolico, tra noi come comunità. Perché un filo da solo può fare una canna da pesca, mentre più fili intrecciati possono fare una rete. 


 

Ci diamo un momento per mangiare qualcosa e tomar una gaseosa, per poi andare nel patio a giocare. E lì che inizia la fine dell’imbarazzo. Due squadre costruite a caso si battono: las luchadoras (o luchonas per qualcuna) y las empoderadas. Una competizione estrema in cui ci si passa l’hula hoop, anche detto hula hula, o si corre, ma in ogni caso si ride, si ride tanto, si ride di gusto. I volti si illuminano, si moltiplicano i ringraziamenti. Chi chiede di continuare, chi fa un sorriso timido. Ma tutte partecipano. E noi ci godiamo a pieno il momento. 

Diamo loro un pacchettino di despedida con dentro penne, quaderni, saponi ed altre cose, più un sacchettino di alimenti fatto alla veloce. E poi, ci pigliamo tutti gli abbracci. Ci facciamo mille foto, cerchiamo le ultime parole dal nostro cattivo spagnolo per raccontare le nostre emozioni e la nostra gratitudine, e apriamo orecchie e cuore al cariño che loro ci donano. Le salutiamo. E qualcuna di noi spera di reincontrarle.


 

Antonino (Padova)

Mentre il progetto compartir iniziava l’incontro per una riflessione su questo mese trascorso insieme, all’ingresso prendeva forma una piccola cappella improvvisata, composta da qualche panca ma soprattutto dall’amore di questi bambini che intonano un canto in italiano imparando a memoria le parole anche se non ne capiscono appieno il significato.
È solo il preludio di una giornata che avanza e ad ogni passo le emozioni diventano sempre più forti. E così mi trovo con Roberto e Francesca nell’ufficio di Mary; lacrime agli occhi, mani intrecciate, storie di vita che ci uniscono e condivisioni di porte che sembrano aprirsi a nuove storie. Anche qui, non faccio in tempo a riprendermi che mi ritrovo nuovamente all’ingresso: sposta la sedia a destra, anzi no meglio a sinistra, chi traduce? Così, nel caos generale, ecco che mi trovo a lato di Judith. È arrivato il tanto temuto momento della despedida; un momento per molti di noi molto importante, in cui si rilegge questo mese anche da parte degli occhi della casa. Quest’anno la novità è che ci riuniamo all’ora di pranzo, forse soffro un po’ sapere di avere poi un intero pomeriggio ricco che mi distoglierà dal far sementare le emozioni nel mio cuore…

“Quiero verlos a cada uno de ustedes a sus ojos y poder demostrarles todo mi agradecimiento y satisfacción…” cosí Judith comincia a parlare di questo mese, di come ha visto un gruppo tanto variegato, immergersi in questo mare a volte tormentato, altre volte tranquillo ma che sempre ti porta a navigare con attenzione. Io siedo al suo fianco, guardo gli occhi dei volontari che vengono chiamati per nome, vedo anche quelli che non sono stati chiamati ma di cui riconosco il grande lavoro che hanno fatto e di cui rimarrà il segno nei cuori di questa casa.  All’improvviso Judith mi chiede di tradurre una storia scritta tanti anni fa, il cui titolo è: “Oggi al Caef è arrivata Lara”; una storia che scrissi un anno e che mai avrei pensato diventasse parte di una despedida. Mentre leggo, gli anni passati in questa casa mi passano davanti agli occhi ormai pieni di lacrime. È forte l’emozione che sento nel condividere questa storia, sento che è bello farlo ma allo stesso tempo mi sento trattenuta. Finita la lettura arriva una domanda: “ Hija mia, cosa è stato per te questo mese? Che hai sentito ritornando al Caef?”; devo dire che ho sentito la terra tremarmi sotto. Non volevo condividere, non sapevo cosa dire e di tutto quello che ho detto e che penso, forse in quel momento mi son gelosamente e volontariamente tenuta dentro la cosa più importante: tornando ho ritrovato l’altra parte della mia famiglia che in questi anni mi è mancata così tanto da forse isolarmi con loro questo mese come per recuperare il tempo “perso”. Ma non c’è molto tempo per ricompormi che eccomi di nuovo seduta alla destra di Judith, alla sua sinistra c’è L.; inizia il suo racconto, il suo cammino all’interno del Caef; forte è il suo coraggio, forti le parole che utilizza per raccontare la sua storia; rimaniamo tutti come stregati dalle sue parole. Le emozioni continuano fino ad arrivare alla nomina del volontario dell’anno; quest’anno tanti nomi sono stati fatti, poi all’unisono i bambini in primis non hanno avuto dubbi: il Profe Simon è il volontario dell’anno 2023.

Io mi giro verso di lui, gli occhi umidi, sguardo basso. Le prime parole che dice sono: “questo premio voglio condividerlo con tutti i volontari, perché è frutto di quello che abbiamo fatto insieme”. Riconosce le difficoltà, il suo anno difficile. Io lo abbraccio e spero che questo premio sia la conferma di quello che gli dissi come sua poltrona nella condivisione. La festa si sposta nella sala da pranzo: pollo, patatine e insalata ma più che altro sono le risate e gli abbracci che imbandiscono le nostre tavole.
Il pomeriggio è un po’ un susseguirsi di incontri per me; mentre si consuma la festa nel dia del niño, io ne approfitto per stare un poco con Mary, Osver… si fanno i conti, si scattano foto e si discute di nuovi progetti.
Arriva anche la visita di tre giovani amici conosciuti in quella che era la parrocchia dei gesuiti. Ci sediamo sui divani e ci raccontiamo questi tre anni di pandemia. Il loro interesse per i bambini è sempre vivo: mi raccontano di aver conosciuto la piccola Y. e di aver visto la crescita di L. che magicamente compare e li abbraccia con tutta la tenerezza di cui è capace. C’è ancora il tempo per un abbraccio con O., ci promettiamo di scriverci, chissà se manterremo la promessa ma mi accontento della forza di quel momento.

Titti (Cagliari)

Si va poi verso il pomeriggio: oggi si festeggia el dia del niño (y de la niña). Arriva una coppia strampalata. Lei vestita a metà tra un topolino, una ballerina e una di quelle che, attraverso un televisore, ti insegnano a fare palestra in casa. Lui dietro al suo computer che smanetta con mouse e tastiera e non perde un secondo la concentrazione. Sono qui per animare questo pomeriggio. E ci riescono bene. Lei cattura l’attenzione di tutti e tutte, soprattutto, cosa dura, dei bambini e le bambine che non smettono mai di ascoltarla e di gridare quando lei chiede. Io entro dopo un po’, perché mi serve tempo per finire cose, come bere un caffè, ma le urla mi arrivano forti e continue, e il desiderio di entrare al comedor mi chiama. Scelgo la squadra che sta perdendo, los leones, e cerco con loro di affrontare i temibilissimi pastelitos. Inutile dire che la sfida è dura, che i cori ti distruggono l’udito. C’è gente che suda, gente che salta in aria dalla competizione. Si fanno torri con contenitori di plastica, si balla al meglio possibile, ci si carica niños sulle spalle. E come al solito non si capisce chi vince. Ma ogni punto fatto vedi esplodere la gioia, improvvisare balletti improbabili, ruggire appunto come leoni. 

Abbiamo ancora tempo per fortuna para disfrutar del dia. Ci prepariamo di fretta e furia per prendere un combi e andare, come già capitato altre volte, a Las Delicias, a la playa de Acapulco. Non saremo in Messico, ma qualcosa di delizioso c’è. Picarones che vengono fritti in un banchetto circondato da tavoli di plastica e sedie, fumi di carne arrosto che riempiono l’aria, i colori delle mille cose che vengono vendute per strada: caramelle, frutta, dolci, sigarette. Prendiamo due birre e ci mettiamo in spiaggia. Laggiù l’Oceano. Noi qui, a guardarlo. Non passa molto, anzi passa pochissimo che ci leviamo le magliette e corriamo verso l’acqua, un po’ perché fa freddo e vogliamo uscire presto, un po’ perché si torna alla gioia primitiva del corpo di un essere umano che torna al suo ventre materno, al luogo dove la vita nacque. Ci si tuffa sopra e sotto le onde. Alcune le si attraversa, altre si cerca di cavalcarle, usando noi stesse come tavola da surf.

 

Usciamo ben presto, sta calando il sole. Ci mettiamo su qualche pietra, e lo miriamo. Questo sole si abbassa piano piano. Il cielo è limpido. I raggi lasciano una grande traccia a tratti arancione, a tratti bianca o gialla su un pezzo di mare. Qualche nuvola ogni tanto lo nasconde. Contiamo gli ultimi secondi prima della sua definitiva immersione. Arrivederci a domani. 

Potrebbero essere già tanto così. Ma a volte il tempo sorprende. Accade così che passano giorni senza nulla da dire, senza troppo da ricordare. E poi ci sono giorni come questi, che vorresti spalmati in più giorni, perché preferiresti mangiarne un poco alla volta piuttosto che abbuffarti. Scendiamo dal combi a la entrada de la Campiña, e, camminando verso casa, ci ritroviamo immersi non più nel mare ma in una folla circondata da suoni alti e bassi. Sono i suoni duri dei tamburi. Volti dipinti di nero colpiscono con forza bombos y redoblantes, e li accompagna sotto una immancabile cassa. Di fronte a loro uomini e donne vestite con cappelli e con la cara pintada di nero ballano. Usano fazzoletti, larghi vestiti, a volte maschere mostruose. Tutto risuona come un’onda potente, come le onde dell’Oceano che non si arrestano, che solo si ritirano per ricominciare. Così loro. Picchiano e ripicchiano i tamburi come dentro a un rito che deve durare a lungo, e si continua a ballare, nonostante il fiatone e il sudore. Oggi si festeggia la virgen, e non ci si può fermare.

Tornare a casa dona un’ultima razione di anticipata nostalgia. Incontri i bimbi e le bimbe, i ragazzi e le ragazze, qualcuna ti dice no te vayas, e non sai cosa rispondere, qualcun’altra ti chiede una carta, un disegno, qualcosa che possa essere per loro un ricordo. E allora mi metto lì, e penso a fuochi, stelle marine e braccialetti. Penso a qualche bella parola da far conservare loro nella memoria. 

Ormai andati tutti a letto, rimango a chiacchierare con qualche adolescente. Parliamo di un po’ di tutto, ci facciamo domande sul preferire queso o huevo, arroz o tallarin, estrellas o Luna, aire o tierra. Propongo poi loro il gioco dei tre animali. Pensa ad un animale. Quale sia: che nuota, che vola, che cammina. Spiega il perché lo hai scelto. Pensane poi un altro. Quale sia: che mangia insetti, erba o altri animali. Spiega il perché lo hai scelto. E infine un altro ancora. Quale sia: un animale acquatico, di terra o d’aria. Spiega il perché lo hai scelto. Ad ognuno corrisponde qualcosa. Ma se volete sapere a cosa, chiedete a me, oppure alle ragazze.

Antonino (Padova)

È buio, mi concedo uno spazio con un amico, forse l’unico di questo mese e di cui avevo immenso bisogno. Mi rendo conto che questo mese è passato quando mi ritrovo alla porta a salutare Giovanna ed Eligio che sono in partenza.
Ora sono qui, nella mia stanza e scrivo per me, per voi che ci seguite ma soprattutto per questa casa, perché si sappia che esiste al mondo un luogo dove il dolore si trasforma in amore e dove ognuno di noi può avere una seconda possibilità.

Titti (Cagliari)


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