El amor no conosce distancia.
Sono partita per questo campo con un bagaglio pesante, e non mi riferisco ai 23 kg della valigia. Portavo con me il peso di un anno complicato, durante il quale ho messo in discussione le mie scelte lavorative e non solo. Un anno in cui ho iniziato a sentire sempre meno, in cui il mio lavoro non era più la mia missione, ma semplicemente un lavoro come un altro. Un anno in cui non mi sentivo valorizzata come educatrice, perché a volte, quando si esce un po' dagli schemi, non si viene apprezzati come si dovrebbe. Mi sono adattata ad un sistema che non mi piaceva, e questo, per come sono fatta io, è stato piuttosto deleterio.
Prima della partenza, avevo molta paura perché mi sentivo stanca e demotivata; temevo di non riuscire a dare amore ai bambini, e ammetto che avevo anche un po' paura di non riuscire a riceverlo.
Col tempo, nel mio lavoro, ho dovuto imparare a non lasciarmi coinvolgere troppo dalle persone e a mantenere una certa distanza tra me e l'altro, per proteggere sia le persone con cui lavoro, sia me stessa. Questo per me è sempre stato molto difficile, perché sono una persona estremamente emotiva e ciò che provavo diventava spesso difficile da gestire.
Arrivata al CAEF, sentivo dentro di me il peso di quella distanza, ormai divenuta parte di me, e faccio ancora molta fatica ad accettarla. Durante una condivisione, ho detto che nel mese di campo avrei cercato di ritrovarmi, di ritrovare quella Alice che metteva l'anima in tutto, che provava emozioni forti e trasmetteva tutta la sua energia, che riusciva quasi come per magia a sollevare anime fragili e a creare connessioni forti solo con uno sguardo o una carezza.
Durante questo mese, qualcosa si è sbloccato, una luce ha iniziato ad accendersi, e tutto questo grazie a R. Io e R., durante le prime settimane, non ci siamo avvicinati; lui spesso non era presente durante le attività, e anche quando c'era, non era sicuramente un bambino che ci riempiva di abbracci e parole dolci, anzi, tutt'altro. La magia tra me e lui è nata durante i due giorni di campamento, quando ho percepito qualcosa di speciale e ho letto nei suoi occhi il bisogno di essere visto, capito e accolto per ciò che è.
Durante il campamento, io e altri tre volontari ci occupavamo dell'organizzazione dei due giorni. Mentre gli altri gestivano le attività sportive, io cercavo di recuperare i bambini che scappavano dal campo da calcio. Uno di questi era proprio R., che non voleva saperne di giocare a calcio o a pallavolo. Si è seduto vicino a me e abbiamo iniziato a disegnare. Io ho preso un foglio bianco e ho iniziato a disegnare uno squalo. Quando l'ha visto, mi ha chiesto: "Para mí?" e io ho risposto subito: "Sí!". I suoi occhi si sono illuminati immediatamente.
Sapevo che dentro quel mio "sì" c'era tanto, e per lui aveva un significato profondo: "Sono qui, sto facendo qualcosa per te, accolgo ciò che sei e ti capisco". Abbiamo iniziato a disegnare e a pasticciare con i colori, come piaceva a lui, e piano piano, tra mani sporche di colore e disegni improvvisati, si è creata una connessione tra noi. Durante quei due giorni, nei momenti in cui forse aveva bisogno di pace e tranquillità, mi cercava per colorare. Dentro di me sentivo una grande gioia; per me era una grande dimostrazione di affetto, data da un bambino che fa molta fatica a esprimere ciò che sente.
Con lui non ho mai avuto il problema della lingua, che per me dal primo giorno è stata un grande ostacolo. Ci capivamo semplicemente con uno sguardo, un sorriso o un gesto; non avevamo bisogno di parole per comunicare. Nei giorni seguenti, il mio muro di distanza iniziava a crollare, e sentivo dentro di me le emozioni che tanto mi mancavano.
Durante il mese, mi sono occupata principalmente dei laboratori creativi; con l'arte riesco a esprimermi e, in modo molto naturale, mi trasmette libertà e serenità. Questo lo avvertivo anche nei bambini: durante le attività creative si vedeva nei loro occhi un senso di beatitudine e serenità.Anche negli occhi e nel sorriso di R. leggevo queste sensazioni. Ho in mente molte immagini di lui con gli occhi sorridenti e le mani sporche di tempera, la sua felicità quando abbiamo fatto la pasta di sale e la libertà di sporcarsi, i suoi disegni che mostrava a tutti con orgoglio e soddisfazione. Io lo osservavo sempre mantenendo la giusta distanza, ma nel mio cuore c'era un'esplosione di felicità e gratificazione. Sentivo finalmente di aver dato qualcosa di mio, di aver trasmesso la mia energia e serenità attraverso la mia creatività.
L'ultimo giorno al CAEF è stato forse il più importante e rivelatore di tutto il mese. La mattina di giovedì mi è stato chiesto di accompagnare R. a scuola. Non avevo molto tempo per prepararmi, così, ancora mezza addormentata e confusa, mi sono alzata dal letto, ho messo le scarpe e ho raggiunto tutti i bambini e volontari che stavano uscendo per andare a scuola. Dietro di me ho subito sentito una manina prendere la mia mano: era R. con un sorriso radioso. Era felice.
Questa immagine è impressa nella mia mente e nel mio cuore: quel gesto così sincero e genuino ha riempito la mia mattinata di gioia e gratitudine. La sua mano è rimasta incollata alla mia fino all'ingresso in classe. Mi sono seduta vicino a lui e mi sono sentita subito nel posto giusto. Dovevo essere lì, ero felice, lui era felice.
Tutto questo ha ridato un senso al mio lavoro nelle scuole qui in Italia. Spesso mi sono sentita poco valorizzata e non apprezzata, impotente di fronte ad un sistema che teme il cambiamento e non pensa alla serenità dei bambini, ma solo al rendimento scolastico. Invece lì, in quella piccola scuola della Campiña, ho sentito l'importanza di ciò che faccio, il valore dei piccoli gesti, e la fortuna che hanno i nostri bambini e ragazzi di avere una figura come l'educatore, sempre pronta a sostenerli emotivamente, a capire le loro esigenze, ad ascoltarli, ad accompagnarli nel loro percorso di crescita personale, a trovare tutte le strategie possibili per il loro benessere. E tutto questo l'ho letto negli occhi di R. mentre lo osservavo in classe, felice di avere una persona al proprio fianco e sentendo la sua frase, che ripeteva spesso: "¿Solo para mí?".
Sì, solo per te, R., e te lo vorrei ripetere altre cento volte, perché so quanto è importante per te sentirtelo dire. Anche al ritorno da scuola, la sua mano non si è staccata dalla mia. L'ultimo pranzo ha scelto il tavolino più piccolo, con tre posti, e ha chiesto a me di sedermi insieme alla sua sorellina. È stato sicuramente il pranzo più emozionante e sentito di tutto il mese. Questo ultimo giorno è stato ricco di emozioni e di gratitudine, e quando ricomincerò a lavorare, ricorderò sempre gli occhi sorridenti di R. durante la lezione, che mi guardavano con stupore e meraviglia. Il saluto finale è stato abbastanza difficile per me, ma nel suo abbraccio ho sentito che il nostro legame non si sarebbe fermato lì, e che anche se, dall'altra parte del mondo, io ci sarò perché l'amore non conosce distanza.
Tagliaro Alice - Trento